domenica 4 dicembre 2011

Global change: Il nostro stile di vita è negoziabile?




Il riscaldamento globale non si stà attenuando ed i cambiamenti climatici sono all'ordine del giorno..è questo che secondo me sembra suggerirci la Climate Change Conference 2011 che si stà svolgendo a Durban in Sudafrica. Che la situazione sia critica, nonostante l'indifferenza a riguardo da parte della maggior parte dei mass media, ci viene ricordato anche dal recente quarto rapporto sui cambiamenti climatici dell'IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change ),  il quale mette in luce non solo che il riscaldamento del sistema climatico è inequivocabile, ma riporta anche alcuni di questi cambiamenti, di cui ci tengo a riportarne alcuni. Allarmante è a mio avviso la situazione della zona Artica, dove le temperature alla superficie dello strato del permafrost sono generalmente aumentate a partire dagli anni '80 (fino a 3°C). Dal 1900, la massima area coperta stagionalmente da terreno ghiacciato è diminuita di circa il 7% nell'emisfero Nord, con una diminuzione durante la primavera fino al 15%. La diminuzione della salinità negli oceani alle medie e alte latitudini, insieme all'aumento della salinità degli oceani alle basse latitudini suggeriscono un cambiamento delle precipitazioni e dell'evaporazione sopra gli oceani. Sono state osservate siccità più lunghe e più intense in aree sempre più estese a partire dagli anni '70, in particolare nelle zone tropicali e subtropicali (e mi vengono in mente le ultime due stagioni delle pioggie nel Corno d'Africa, le quali sono state così scarse da determinare crisi idrica e carestia). Ci sono osservazioni che mostrano un aumento dell'attività dei cicloni tropicali intensi nel Nord Atlantico a partire dal 1970 (e penso ad esempio all'uragano Irene che verso la fine di agosto, anche se declassato a tempesta tropicale, è arrivato a interessare New York ); l'aumento di tali fenomeni è legato al (a mio avviso) preoccupante incremento delle temperature superficiali marine tropicali. I rischi concreti sono numerosi e ne riporto brevemente alcuni come l'innalzamento del livello dei mari (il quale è cresciuto di 20 cm solo nel secolo scorso), la scomparsa fino al 30% di specie vegetali ed animali che potrebbero estinguersi se l'aumento della temperatura globale supera 1,5-2,5 °C, il ghiaccio marino artico potrebbe scomparire del tutto durante l'estate dalla seconda metà di questo secolo, potremmo avere più ondate di calore, siccità e precipatazioni estreme e cicloni tropicali più intensi, ecc..
Le cause di tutto ciò le conosciamo, anzi, sono note ormai da tempo e credo che anche a scuola molti ragazzi  ormai le sappiano a memoria: i gas serra, ovvero CO2, Metano, protossido di azoto e altri. Ridurre la concentrazione nell'atmosfera di questi gas richiede sicuramente un impegno serio e coerente da parte di chi governa, ma credo impegni più direttamente ciascuno di noi, andando ad incidere sul nostro stile di vita...Ma chi di noi è disposto a cambiare il proprio stile di vita? Credo la verità e la soluzione in fin dei conti sia racchiusa in questa semplice domanda. A tal riguardo alcuni anni fà l'ex presidente degli U.S.A. Bush disse chiaramente che "il nostro stile di vita non è negoziabile", non prendendo così di fatto impegni concreti per la riduzione dei gas serra. Io sono invece convinto che parta tutto da noi e da un educazione/comunicazione che vada verso uno stile di vita più eco-compatibile (dalla scelta dei prodotti che acquistiamo a come ci spostiamo per esempio). Quello che ho scritto nel post sono le mie personali opinioni, però vorrei chiedere a voi lettori del blog di contribuire e partecipare con la vostra idea sui cambiamenti climatici attraverso il sondaggio che ho inserito nella barra a destra o rilasciando un commento nel post.

lunedì 24 ottobre 2011

..ma i Parchi sono importanti?



"There is something in the wild scenery of this valley which I cannot describe: but the impressions made upon my mind while gazing from a high eminence on the surrounding landscape one evening as the sun was gently gliding behind the western mountain and casting its gigantic shadows across the vale were such as time can never efface.  For my own part I almost wished I could spend the remainder of my days in a place like this where happiness and contentment seemed to reign in wild romantic splendor" - Lamar Valley, Osborne Russell 1835

Questa frase di Osborne Russell, volutamente riportata nel testo originale, riflette il suo stato d'animo di stupore, meraviglia ed allo stesso tempo di felicità, nel trovarsi immerso in un paesaggio così selvaggio, ma anche incredibilmente affascinante come Lamar Valley. Tale posto oggi è conservato all'interno di quello che è il più antico parco nazionale del mondo: il Yellowstone National Park. Esso è stato istituito nel 1872 e presenta una grande varietà faunistica, tra cui possiamo ricordare il famoso Orso Grizzly (Ursus arctos horribilis), il Bisonte (Bison bison) o tra gli uccelli la Grus americana; importante è poi anche la presenza di geyser ed altre caratteristiche geologiche. In Italia possiamo ricordare invece il parco nazionale del Gran Paradiso (il più antico del nostro paese) caratterizzato da un'ambiente prevalentemente alpino con boschi di fondovalle caratterizzato da abeti rossi (Picea abies), larici (Larix), pini cembri (Pinus cembra) e più raramente abeti bianchi (Abies alba), e popolato da una fauna tipica di questi ambienti. Si potrebbe continuare ad elencare tante altre aree protette, ma già così mi sembra risulti chiaro quello che è un po' il loro ruolo principale: la conservazione della natura. Io credo onestamente che in un parco ci sia di più, e lo spunto me lo offre sia la citazione di Russell, sia la recente conferenza EUROPARC 2011 dal titolo "Conta la qualità - Benefici per la Natura e le Persone"..E vorrei sottolineare Benefici per la Natura e le Persone, sì perchè questa che dovrebbe essere un'ovvietà, già i nostri antenati avevano infatti capito l'importanza del legame tra le persone e la qualità dell'ambiente, oggi è invece divenuto un concetto poco conosciuto e da molti purtroppo ritenuto trascurabile. Inoltre, una recente iniziativa svolta in Australia dal nome "Healthy Parks Healthy People" mette in luce i molteplici benefici che un'area protetta è in grado di fornire all'uomo e alla sua salute. Ricordo per esempio come l'esposizione ad ambienti naturali, come appunto quelli di un parco, aumenti la capacità di affrontare e recuperare dallo stress, e riprendersi da malattie ed infortuni. Terapie basate sul "deserto" o sul contatto con gli animali hanno portato alla guarigione pazienti che non avevano risposto a trattamenti precedenti..ecc..Per rispondere quindi alla domanda con cui ho intitolato il post, dico sì. Perchè i parchi riescono non solo a tutelare il nostro preziosissimo patrimonio naturale, ma possono infondere anche nel visitatore quella senzazione di "wilderness" ed allo stesso tempo di felicità come in Osborne Russell, e riescono a creare, se messi nelle giuste condizioni, quei benefici per l'uomo anche a livello di salute e benessere come riportato prima nel caso australiano. Serve allora sicuramente il sostegno delle istituzioni, ma prima di tutto della gente e di quella convinzione che le aree protette in Italia, come in tutto il mondo possano contribuire in modo determinante alla salute del nostro pianeta e quindi di noi stessi.

sabato 1 ottobre 2011

Acqua elemento di vita



Circa 3,5 miliardi di anni fà (durante l'Archeano) il pianeta in cui abitiamo vide comparire nei propri mari i primi batteri procarioti anaerobi eterotrofi ed alghe azzurre unicellulari, a cui seguì la formazione dei primi organismi autotrofi (in grado quindi di svolgere la fotosintesi), come le alghe verdi-azzurre filamentose, che contribuirono in modo importante ad un aumento della concentrazione dell'ossigeno (consentendo così lo sviluppo delle successive forme biologiche). Al giorno d'oggi sappiamo che non vi è specie animale o vegetale che possa fare a meno dell'acqua. Viene subito alla mente allora per esempio il dromedario (Camelus dromedarius), il quale riesce a sopravvivere in un ambiente arido perchè è stato in grado, nel corso dell'evoluzione, a sviluppare dei meccanismi fisiologici che gli consentono di disperdere pochissimo di questo prezioso liquido (reni molto capienti, urina molto concentrata, ecc..) e di crearne, metabolizzando il grasso accumulato nella gobba con cui riesce a produrre idrogeno che unito all'ossigeno proveniente dall'aria và a formare acqua (il rapporto è stimato essere in 1kg di lipidi = 1 litro di H2O). Anche per le piante è fondamentale conservare e non disperdere acqua quando ce n'è poca!questo è ben visibile nelle piante succulente, tra le quali alcune hanno sviluppato un particolare metabolismo definito CAM per minimizzarne la perdita; sempre per raggiungere questo obiettivo le foglie sono praticamente scomparse o sono di forma sferica, è stato ridotto il numero degli stomi (sede degli scambi gassosi), la forma di crescita è compatta, ecc..
A livello poi di biodiversità un recente rapporto della IUCN mette in mostra come anche solo gli habitat d'acqua dolce che rappresentano soltanto circa l'1% della superficie terrestre riesce a fornire una casa per oltre il 25% di tutte le specie di vertebrati. Noi stessi poi abbiamo un organismo costituito per circa due terzi da acqua (per esempio il 70% della pelle è formata da acqua ), ed è stimato che possiamo sopravvivere circa un mese senza cibo ma solo 5-7 giorni senza acqua, a sottolineare una volta di più come essa sia fondamentale anche per la vita umana!Proprio a livello umano la mancanza di acqua stà diventando una delle principali sfide del nostro tempo dove, sempre secondo la IUCN, attualmente più di 80 paesi (che rappresentano il 40% della popolazione mondiale) stanno vivendo in condizioni di gravi carenze idriche. In questo senso il sud-ovest dell'Asia affronta la minaccia più grande, avendo oltre il 90% della popolazione della regione che soffre di grave stress da acqua. E' quindi un elemento fondamentale che và tutelato e gestito in modo più sostenibile, coinvolgendo governi, imprese e comunità locali. Ho inoltre trovato molto interessante un quiz elaborato sempre dalla IUCN, per vedere qual è la nostra reale conoscenza sull'argomento. Chiaramente invito anche i lettori del blog a provare a farlo e pertanto vi segnalo il link!http://cmsdata.iucn.org/custom/quiz/2010/water.htm

venerdì 12 agosto 2011

Pacific trash vortex


E' questo il nome che è stato dato per identificare un'elevata concentrazione di rifiuti, un vortice appunto di spazzatura localizzato nella parte nord dell'Oceano Pacifico che si è formata a partire dagli anni '50. Se uno guarda le immagini dall'alto rimane impressionato, poichè assomiglia ad una gigantesca isola ma dove però nessuno può approdarvi e scendervi. L'estensione di questa, passatemi il termine, "discarica galleggiante" è notevole, possiede un diametro di circa 2500 km ed una profondità media di 30 metri, dove l'80% è plastica proveniente per lo più dai continenti, mentre solo una minima parte ha come fonte navi private, commerciali o pescherecci. Da un sopralluogo effettuato da Chris Parry del California Coastal Commission di San Francisco (USA) è emerso che essa possiede una densità tale che il peso complessivo di quest'isola, se fosse pesata, sarebbe di circa 3,5 milioni di tonnellate. Ma voi vi chiederete..come ha fatto a formarsi? Questo perchè nella parte settentrionale dell'Oceano Pacifico è presente la North Pacific Subtropical Gyre; questa altro non è che una lenta corrente oceanica, la quale si muove in senso orario a spirale, i venti sono leggeri e le correnti tendono a spostare qualsiasi cosa galleggiante nella zona a bassa energia nel centro del gyre. Come si può ben  immaginare in quest'area la vita è ridotta solo a pochi grandi mammiferi o pesci e dove la plastica costituisce un grave problema. Può essere allora per esempio, come sottolineato anche da Greenpeace, che degli uccelli marini o altri animali possano scambiare questi rifiuti per prede. Risultano infatti numerosi gli uccelli ed i loro pulcini trovati morti con gli stomaci pieni di oggetti in plastica come tappi di bottiglia, accendini e palloncini. Una tartaruga trovata morta alle Hawaii aveva addirittura più di mille pezzi di plastica nello stomaco e nell'intestino. Da un report della UNEP (United Nations Environment Programme) "Ecosystems and Biodiversity in Deep Waters and High Seas" del 2006 è stato stimato che sono oltre un milione gli uccelli marini e 100.000 i mammiferi e le tartarughe marine uccise ogni anno dall'ingestione della plastica. Inoltre c'è anche la possibilità che gli animali possano impigliarsi nei filamenti di plastica o mangiare le piccole particelle di plastica che si originano per degradazione e che galleggiano nell'acqua. La pericolosità di questo materiale inoltre aumenta con l'effetto "Chemical sponge", ovvero la plastica può funzionare come una sorta di spugna, all'interno della quale possono concentrarsi molti dei più dannosi inquinanti come i POP (inquinanti organici persistenti), dove un qualsiasi animali che ingerirà uno di questi detriti plastici prenderà anche degli inquinanti estremamente tossici. Oltre al Nord Pacific Gyre vi sono altri punti con circolazione lenta, come in Atlantico per esempio l'area del Mar dei Sargassi; ma il problema non stà nella naturale circolazione delle acque oceaniche, ma purtroppo nell'uso ancora troppo massiccio che si fà della plastica.

sabato 23 luglio 2011

Flagship species


Vorrei iniziare il post di oggi con una piccola domanda a voi lettori.Se io vi chiedessi il nome di una specie a rischio di estinzione a causa dei climate change voi chi mi direste?..Bè probabilmente la maggior parte di voi direbbero l'Orso polare (Ursus maritimus), e  questo è giusto e vero, in quanto il suo ciclo biologico è strettamente legato al ghiaccio dell'Artico e di conseguenza anche le sue problematiche. E' su questa piattaforma che si muove per cacciare, riposare, accoppiarsi e riprodursi, e la principale minaccia quindi alla sua sopravvivenza è la perdita del pack dovuta al riscaldamento globale. In base a quanto riportato da un recente report del WWF, tra il 1979 ed il 2006 la piattaforma di ghiaccio artico è diminuita del 21% (un'area quasi equivalente all'estensione dell'Alaska) ed inoltre il suo assottigliamento rende sempre più facile la sua spaccatura. Quest'ultima criticità fà si per esempio che nell'area delle baie di Hudson e Baffin, in Canada, il ghiaccio si rompe 3 settimane prima rispetto al 1979, questo comporta che sia i maschi che le femmine abbiano meno tempo di mettere su massa corporea cacciando e cibandosi. In questo modo il peso medio di una femmina adulta è sceso da 290 Kg nel 1980 a 230 Kg nel 2004, e questo è un dato molto preoccupante se noi pensiamo che il peso soglia al di sotto del quale una femmina non è più in grado di riprodursi è 189 Kg. Sempre la precoce spaccatura dei ghiacci mette a rischio anche la sopravvivenza dei cuccioli, in quanto a causa delle modificazioni della superficie glaciale, diminuiranno le tane che le femmine possono usare come rifugio. L'Orso polare è una specie altamente specialistica, fortemente adattata all'ambiente artico, caratteristica che la rende così una specie estremamente vulnerabile ai cambiamenti climatici ed alla perdita di habitat; per questo motivo è diventata la specie bandiera dell'impatto che il global warming stà avendo sul mondo intero. L'Orso polare è ciò che viene definita una specie bandiera (flagship species), scelta quindi a simboleggiare un problema ambientale. In realtà vi sono diverse altre specie minacciate dai cambiamenti climatici come il corallo Staghorn (Acropora cervicornis) la cui sopravvivenza è messa in pericolo dall'aumento della temperatura delle acque marine e dall'acidificazione dell'oceano (problematica questa di cui ho già parlato in un post precedente..), o come  la tartaruga liuto (Dermochelys coriacea) dove l'innalzamento delle temperature a livello dell'aria e delle acque determinano un innalzamento del livello dei mari e degli oceani andando a  modificare le correnti, inoltre lo stesso aumento della temperatura della sabbia può alterare l'incubazione delle uova e portare ad un numero sproporzionatamente basso di maschi. Diverse possono essere poi le flagship species che richiamano ad altre criticità ambientali, come la tigre (Panthera tigris) di cui dal 1940 ad oggi si sono estinte 3 sottospecie, ed attualmente sono rimaste in natura solo 3200 individui! (stando agli ultimi dati forniti dal WWF) Essa è diventata un simbolo per la lotta al bracconaggio e alla deforestazione, principali cause del suo declino, ma che appunto non coinvolgono solo la tigre ma un numero di specie molto più alto. In questo senso altre specie bandiera possono essere anche il panda gigante (Ailuropoda melanoleuca), il gorilla di montagna dell'Africa centrale (Gorilla beringei beringei) o il leontocebo rosalia (Leontophitecus rosalia) del sud America, ma su cui non mi dilungo oltre. Le specie a rischio sono davvero tante, e l'errore più grave che potremmo fare sarebbe quello di non considerarlo un nostro problema. Quando una specie scompare, è estinta per sempre. L'impegno per uno sviluppo sostenibile che riduca il degrado del nostro pianeta e ci consenta così di salvaguardare la biodiversità dev'essere sicuramente un'imperativo di tutti i governi, ma credo debba essere anche una nostra condizione morale nella vita di tutti i giorni.

domenica 3 luglio 2011

Una lotta globale: le specie invasive



Nel post precedente ho cercato di sottolineare con l'introduzione del periodo geologico dell'Antropocene come di fatto la presenza e le attività dell'uomo abbiano inciso in modo significativo sul Sistema Terra. Questi interventi dell'uomo, che sono  dettati da un certo stile di vita che si vuole mantenere (e penso sopratutto ai paesi maggiormente "industrializzati"), hanno come effetto la riduzione ed il degrado di ecosistemi ed habitat, l'inquinamento dell'aria e delle acque, dissesti idro-geologici,ecc.. Ecco io oggi volevo affrontare in questo senso una problematica di cui poco si sente parlare, ma estremamente diffusa a livello planetario e riportato di recente anche in un report della IUCN. Si tratta delle specie invasive, cioè di quelle specie che sono state introdotte dall'uomo accidentalmente o di proposito in aree in cui non si trovano naturalmente, ed in queste zone hanno prosperato nella misura in cui si sono adattate al nuovo ambiente. Tale problematica è insieme alla distruzione degli habitat una delle principali cause di estinzione delle specie e quindi di perdita di biodiversità. C'è però da dire che non tutte le specie "non native" sono anche invasive, infatti molte non saranno in grado di adattarsi al nuovo ambiente e saranno quindi destinate a morire; altre magari non cacciano le specie autoctone  o riescono ad essere co-esistenti con esse senza concorrenza. In questo modo un ecosistema riesce a sostenere questo cambiamento senza perdere le sue componenti chiave. La differenza sostanziale quindi tra specie "non nativa" e specie invasiva risiede quindi nel fatto che queste ultime hanno la "capacità" di entrare in competizione con le specie autoctone, determinando un grosso impatto sulla biodiversità di quell'area. Vediamone insieme alcune. Il coniglio europeo (Oryctolagus cuniculus) stà scatenando il caos su terreni agricoli in Australia per giacinti d'acqua (Eichhomia crassipes). Il gambero di fiume della Louisiana (Procamabarus clarkii), il quale introdotto ormai da anni in Italia per allevamento è riuscito a liberarsi (o rilasciato...) e diffondersi così nei laghi e fiumi d'Italia, Francia, Spagna e Germania; esso stà mettendo a forte rischio la sopravvivenza del gambero di fiume autoctono (Austropotamobius pallipes). La mangusta indiana (Herpestes javanicus), introdotta in molte isole come Mauritius, Fiji e Hawaii, dal suo nativo sud est asiatico con lo scopo di aiutare a controllare le popolazioni di ratti di queste zone, ha determinato la scomparsa di molte specie locali di uccelli, rettili ed anfibi che non erano abituati a predatori così veloci. Il pesce persico del Nilo (Lates niloticus) invece è stato introdotto nel lago Vittoria in Africa nel 1954 per cercare di contrastare il drastico calo degli stock ittici causato dalla pesca eccessiva; ma l'introduzione di questa specie contribuì in modo determinante all'estinzione di circa 200 specie di pesci predati o entrati in competizioni con il nuovo arrivato. Tutti questi esempi hanno un denominatore comune: l'uomo. Credo quindi si debba avere senso di responsabilità e cercare di porre rimedio a certe problematiche, come è stato fatto per esempio ad Ascension Island. Essa è un'isola nell'Atlantico Meridionale, la quale era sede di grandi colonie di uccelli marini, poi agli inizi del 1800 sono stati introdotti dei gatti selvatici che hanno di fatto decimato i siti di nidificazione, determinando così un rapido declino del numero di uccelli sull'isola, dei quali rimasero solo delle piccole popolazioni relitte su delle scogliere inaccessibili. Nel 2001 fu programmato un piano di eradicazione del gatto selvatico sull'isola ed entro il Marzo del 2004 l'ultimo individuo di questa specie è stato rimosso. Cosa è successo dopo?Bene uccelli come la Sula dactylatra e il Fetonte leptorus hanno cominciato a ricolonizzare la terraferma. Piani di questo tipo ritengo siano molto importanti per eliminare le specie alloctone invasive prima che esse possano causare dei danni irreversibili alla biodiversità ed agli equilibri naturali con cui entrano in contatto. Deve essere però altrettanto chiaro che l'eradicazione è solo l'ultima possibilità, e riprendendo il senso di responsabilità e di rispetto che dobbiamo avere verso l'ambiente che ci circonda ci tengo a sottolineare come sia importante prevenire il problema e quindi evitare introduzioni di specie che possono determinare degli effetti negativi sulle specie autoctone e sugli equilibri naturali con cui entrano in contatto.

domenica 5 giugno 2011

Antropocene


Di recente ho letto su Greenreport una notizia che non solo mi ha fatto molto piacere, ma sostiene anche una teoria affrontata numerose volte all'università coi compagni e professori, e che io personalmente ritengo indispensabile per dare il giusto peso all'azione dell'uomo sul sistema Terra nel corso del suo progresso tecnologico. Voi direte mi direte..ma di cosa si tratta? Mi riferisco alla necessità d'inserire un nuovo periodo geologico denominato Antropocene, anche il numero del 28 Maggio - 3 Giugno dell'Economist, famosa rivista internazionale, ne fà riferimento mettendo addirittura come titolo di copertina "Welcome to the Anthropocene. Geology's new age". Non tutti gli scienziati e studiosi internazionali sono ancora concordi nel riconoscere tale periodo (ma l'unanimità è sempre qualcosa di difficile da raggiungere credo..), ma vediamo un po' effettivamente cosa intendiamo con questa dimensione antropocenica . Il termine Antropocene và ad indicare l'impatto umano collettivo su quelli che sono i processi biologici, chimici e fisici che hanno luogo attorno e sulla superficie della Terra. Gli autorevoli geologi che registrano la storia del nostro pianeta e le sue diverse caratterizzazioni nell'arco dei suoi 4,56 miliardi di anni di esistenza, definiscono la geologia della Terra suddivisa in grandi ambiti, detti Eoni (i quali rappresentano centinaia o addirittura miliardi di anni), i quali a loro volta sono ulteriormente ripartiti in Ere, Periodi, Epoche ed Età, con le ultime che rappresentano le unità di tempo più piccole. Di conseguenza ciò che avviene nella geologia terrestre, nelle rocce del nostro pianeta dipende dai numerosi fattori che possono interessare i loro caratteri fisici (la litostratigrafia), il contenuto dei fossili (biostratigrafia), le proprietà chimiche (chemiostratigrafia), le proprietà magnetiche (magnetostratigrafia) ed i pattern legati ai livelli dei mari (stratigrafia delle sequenze). Bene la somma di tutte queste evidenze, registrate e consciute, consente alla comunità dei geologi di poter datare e correlare le varie e diverse unità nel tempo, andando a costituire quella che viene definita geocronologia e poter ridefinire continuamente la scala dei tempi geologici (la Geological Time Scale). Perchè ho riportato tutti questi cenni di geologia stratigrafica? Per il semplice motivo che è su questi punti che sono concentrate le importantissime ricerche che i geologi stanno svoilgendo per individuare la stratigrafia dell'Antropocene (in particolare il famoso geologo Jan Zalasiewicz, dell'Università di Leicester è alla guida di un ampio gruppo di autorevoli geologi che stanno valutando l'accettazione formale dell'Antropocene nel Geological Time Scale nell'ambito dell'International Commission on Stratigraphy dell'International Union of Geological www.iucs.org). Da questi studi sono già arrivati i primi dati che indicano come l'intervento operato dall'uomo sull'ambiente  è chiaramente identificabile nella litostratigrafia con le modificazione dei pattern dei sedimenti. Nello specifico la somma degli effetti fin qui registrati, a livello delle terre emerse, per quanto concerne i movimenti antropogenici di suolo, rocce e sedimenti, di diverisone dei fiumi, di modificazione dei corsi d'acqua e delle linee costiere, delle modificazioni causate dalle pratiche agricole e dalle strutture urbane e, a livello di aree marine, delle profonde modificazione degli ecosistemi oceanici vengono considerate superiori a qualsiasi altro processo naturale in corso. Pensiamo anche agli ambienti "costruiti", in particolare ai nuovi materiali come plastica, vetro e strutture di vari metalli, la perturbazione antropica provocata nei grandi cicli biogeochimici, primo fra tutti quello del Carbonio, il quale stà provocando effetti e conseguenze su tutto il sistema Terra, nonchè quelli dell'azoto e del fosforo. Inoltre se pensiamo alla dimensione eccezionale  che l'intervento umano ha esercitato sulla biodiversità planetaria, determinando quel fenomeno conosciuto come sesta estinzione di massa, può condurre anche ad eventuali registrazioni di tale fenomeno dal punto di vista biostratigrafico. Nessuna specie in natura ha mai lasciato un'impronta come quella che stiamo lasciando noi, personalmente ritengo importante diffondere il concetto di Antropocene non tanto per descrivere uno stato di fatto (l'impatto umano sul sistema Terra), ma piuttosto per raggiungere quella finalità di sensibilizzazione delle coscienze e delle nuove generazioni sul rispetto dell'ambiente. Fin tanto che si continuerà a ragionare in un'ottica dove tutto è dovuto all'uomo, dove l'importante è produrre, consumare sempre di più senza porsi il problema di ciò che andiamo ad alterare a livello di risorse e di cicli naturali, l'impronta dell'uomo sarà sempre più profonda; ma a questo punto la domanda giusta è: Fino a quando la Terra riuscirà a sopportare tutto ciò senza collassare?Fino a quando durerà l'Antropocene?..Ai posteri l'ardua sentenza..
(se qualcuno è interessato all'argomento posso consigliare "Benvenuti nell'Antropocene! L'uomo ha cambiato il clima. La Terra entra in una nuova era", questo è un libro scritto da Paul Crutzen che nel 1995 ha vinto il Nobel per la chimica per le sue ricerche sull'ozono)


sabato 16 aprile 2011

L'importanza degli habitat


Spesso si sente parlare del termine habitat o di ecosistema, purtroppo però questo avviene solo quando i telegiornali ci mostrano delle catastrofi di origine antropica come è successo al largo del Golfo del Messico con lo sversamento di migliaia di tonnellate di barili di petrolio causato dalla centrale della BP, oppure ultimamente per via del disastro nucleare in Giappone dove si stanno rigettando in mare un'enorme quantità di acqua altamente radioattiva. Ecco con il mio post di oggi vorrei condividere con voi lettori del blog un problema, quello cioè legato alla distruzione e al declino di habitat e relativi ecosistemi, perchè se ne sente parlare sempre troppo poco e solo quando avvengono dei disastri improvvisi come quelli che ho citato prima. In realtà senza passare per i telegiornali ed i mass media sono numerosissimi gli ambienti naturali e seminaturali che sono in graduale, ma profondo, e a volte irreversibile declino. Non nasce certo ora questo problema, ma ha radici più lontane, in tempi passati, e credo sia corretto dire che il più profondo cambiamento del Sistema Terra sia avvenuto a partire dalla Rivoluzione Industriale, dove l'impatto dell'uomo sull'ambiente si è fatto sempre più devastante. Questa "impronta" dell'uomo sulla natura secondo il mio punto di vista diviene ancora più problematico nel momento in cui viene a mancare la consapevolezza di ciò che stiamo alterando o distruggendo, cioè non stiamo solo danneggiando degli ambienti vitali per determinate specie animali e vegetali, ma stiamo minacciando dei sistemi che forniscono dei "servizi ambientali", che sono vitali per noi, di conseguenza una loro distruzione porta anche a degli effetti negativi sulla popolazione umana. Sapete che a me piace entrare nel concreto, per questo in merito al declino degli ambienti naturali volevo riportarvi il caso delle zone umide costiere, attraverso i dati forniti da un rapporto effettuato dalla World Bank, IUCN (International Union for Conservation of Nature) e degli specialisti dell'ESA PWA. Sappiamo che queste zone sono estremamente ricche di biodiversità, ma lo studio effettuato da queste strutture ha messo in evidenza quello che è anche il "servizio ambientale",cioè, analizzando 15 delta costieri in tutto il mondo, hanno dimostrato che le emissioni dei gas serra aumenteranno con la perdita delle zone umide attualmente in corso. Nello specifico la relazione sottolinea innanzitutto l'attuale tasso di degrado e perdita di tali ambienti, che è stato stimato essere fino a 4 volte superiore a quello delle foreste tropicali. Nel particolare è bene ricordare la distruzione di circa il 20% delle Mangrovie di tutto il mondo, che corrisponde ad una superficie di circa 35.000 chilometri quadrati negli ultimi 25 anni, che ha determinato il rilascio di carbonio accumulato nei secoli all'interno di queste piante. Inoltre dei 15 delta esaminati, sette di questi hanno rilasciato più di 500 milioni di tonnellate di CO2, per lo più negli ultimi 100 anni. Mangrovie, paludi e le altre specie vegetali presenti in questi habitat contribuiscono quindi in modo significativo a rimuovere il carbonio dall'atmosfera, bloccandolo nel terreno, dove vi può rimanere per millenni. A differenza delle foreste terrestri, questi ecosistemi marini sono una sorta di "carbon pools" (piscine di carbonio) in continua costruzione ed evoluzione, fissando nei loro sedimenti una enorme quantità di carbonio blu. Quando poi questi sistemi vengono degradati a causa del drenaggio o per riconversione per l'agricoltura e l'acquacoltura, inevitabilmente emettono una gran quantità di CO2 in atmosfera. Questo che ho riportato è un'esempio, ma ci sono tantissimi altri habitat che vanno tutelati, per la biodiversità che ospitano e per la vitalità che hanno per il pianeta in cui viviamo, servono sicuramente impegni concreti e politiche serie da parte di chi governa, ma serve anche una maggior sensibilizzazione ed educazione per uno sviluppo sostenibile (non legato quindi semplicemente al consumo), dove l'impegno per la salvaguardia e tutela degli habitat sia un impegno prioritario da parte di tutti.

giovedì 24 marzo 2011

La "Cintura" del Pacifico..un contorno di hot spots



Ciò che è successo in Giappone ultimamente, e non parlo del problema nucleare, ma delle forti scosse di terremoto che hanno colpito la popolazione nipponica (a cui và la mia più sentita vicinanza e affetto in questo momento) hanno avuto effetti più devastanti di quelle che le hanno precedute in passato in quanto oltre al sisma si è generato anche uno tzunami. Ora, a seguito della richiesta da parte di alcuni lettori del blog vorrei fare un'attimo di chiarezza sul perchè questa regione dell'estremo oriente è così facilmente esposta a terremoti e come mai si è verificata la conseguente onda anomala. C'è da dire innanzitutto che il sistema di isole giapponese si trova localizzato sul margine dell'imponente placca euroasiatica, la quale fronteggia la placca del Pacifico e più a sud quella delle Filippine. Questo fà si che di fronte alle coste giapponesi (quelle che danno verso il Pacifico) si sia formata nel corso di migliaia di anni una fossa oceanica molto profonda, la quale indica chiaramente la presenza di un fenomeno di subduzione dove la placca oceanica del Pacifico e quella più a sud delle Filippine scorrono sotto la litosfera continentale del Giappone in quanto quest'ultima presenta una densità minore. Questo processo segue una linea o piano di Benioff che scende in profondità con un'angolo rispetto alla superficie terrestre compreso in genere tra i 30° e 70°. La litosfera che sprofonda e và verso il Mantello genera attriti con le rocce circostanti e sono tali scontri che determinano gli ipocentri dei terremoti di cui noi vediamo poi gli effetti in superficie. Questo può aiutare a capire come mai si originano i terremoti in quella zona, ma come fà direte voi a originarsi uno tzunami??Ecco, esistono diciamo quattro fasi di sviluppo di un maremoto: nascita, propagazione in acqua profonda, propagazione in acqua poco profonda e impatto sulla costa. Di questi passaggi ritengo la nascita sia quella fondamentale, in quanto questo fenomeno può essere originato da eruzioni vulcaniche o da frane sottomarine (ma questi sono casi poco frequenti), mentre invece più spesso hanno inizio da un terremoto. Il requisito principale è lo spostamento verticale e rapido della colonna d'acqua, e questo segue generalmente un sisma che per poter produrre uno tzunami deve avere una magnitudine maggiore di 6,5 e ipocentro inferiore ai 50 Km di profondità.Ora il recente sisma, o meglio sciame sismico che ha colpito il Giappone, ha avuto un picco di magnitudo addirittura di 8,9!!Questo ha determinato quelle onde devastanti alte anche 10-15 metri che si sono abbattute sulla costa. In realtà le onde generate dal maremoto si propagano in ogni direzione e con una velocità che in acqua profonda può raggiungere anche gli 800 Km/h e circa 1,5 metri di altezza, per poi "rallentare" in acque poco profonde intorno ai 200 Km/h ma aumentando l'altezza fino a raggiungere la costa dove diminuisce lo spessore dell'acqua e aumenta l'attrito che porta a una diminuzione della velocità delle onde intorno ai 50 Km/h ma le fà aumentare di diversi metri d'altezza (quelle che si sono abbattuta sulle coste nipponiche erano di una decina di metri come citato in precedenza). Questi fenomeni si verificano perchè la Terra è "viva", poi possiamo dare la colpa alla natura e a quello che vogliamo ma la realtà è che questi sono processi fisiologici della Terra e che l'uomo non può pensare di governare.

giovedì 3 marzo 2011

Phoenix Island: La forza della Vita


Oggi vorrei raccontarvi di un evento, riportato dal National Geographic, che forse a chi legge potrà sembrare non ci riguardi direttamente visto che il luogo in cui avviene si trova a migliaia di km da noi, e più precisamente alle Isole della Fenice. Questo è un minuscolo arcipelago situato nel Pacifico Centrale, vicino alle Isole Figi, dove la vicinanza all'Equatore determina delle condizioni meteorologiche che non subiscono grossi cambiamenti. Cosa è successo?Ecco, le barriere coralline presenti in quest'area, nel 2002-2003 hanno subito una rara calamità, e cioè, un picco (un forte aumento) della temperatura delle acque marine del luogo (in alcune zone è arrivata addirittura a 31°C). La causa è legata a El Nino di quel periodo, che ha portato una massa d'acqua più calda di oltre 1°C rispetto alla norma, rimanendo per circa sei mesi intorno alle Isole della Fenice. La conseguenza di questo evento è stata lo sbiancamento delle scogliere di madrepora e la morte del corallo. Quando questo smette di vivere succede che le alghe possono attecchire e crescere sulla superficie delle madrepore morte, rendendo così estremamente difficile l'insediamento di nuovo corallo. Cosa è stato fatto allora per risolvere il problema? Attraverso la Convenzione sulla Biodiversità firmata in Brasile nel 2006 si è riusciti a istituire due anni dopo la Phoenix Island Protected Area (PIPA), che è attualmente con i suoi 406.628 chilometri quadrati la più vasta area marina protetta del mondo. E voi mi direte, ma perchè l'area protetta è stata la soluzione? Poichè proteggendo i pesci (impedendone la pesca), tra i quali per esempio c'è il pesce pappagallo (Sparisoma cretense), che brucano le alghe, impedendo così l'asfissia e la morte del corallo. Ho detto all'inizio che "sembra" che questo episodio non ci riguardi direttamente, perchè la causa di quell'anomalia del Nino sono i cambiamenti climatici, dovuti ai gas clima alteranti di cui anche noi siamo responsabili. Inoltre la barriera corallina non è semplicemente un ecosistema bello da vedere con tutti i suoi coralli e pesci colorati, è molto di più! Riesce a immagazzinare grandi quantità di CO2 (il principale gas serra), sottraendola all'atmosfera, arrivando così a fornire un "servizio ambientale" a tutti noi. La cosa poi che forse trovo ancora più appassionante è vedere come la natura, se lasciata libera di agire (come in questo caso attraverso la protezione della fauna ittica) riesce a rimediare a problemi causati dall'uomo, ridando vita a qualcosa che era morto. In questa direzione và il mio pensiero finale, frutto anche di un convegno sulla Biodiversità a cui ho partecipato la settimana scorsa, e cioè sulla necessità di dare importanza e risorse economiche alle aree protette, poichè esse sono fondamentali per conservare la diversità della vita e sono in grado di tutelare o ripristinare le funzioni ambientali. Concludo infine con un breve discorso, che credo significativo e riassuntivo di tutto, del famoso biologo Edward O. Wilson, il quale disse: "La varietà delle forme viventi - o "Biodiversità", secondo un termine nuovo del gergo scientifico - è la chiave di volta per la conservazione del mondo così come lo conosciamo. In un determinato luogo, la vita, assalita dalla furia di un temporale, è capace di riprendersi subito proprio grazie all'esistenza della biodiversità. Vi saranno specie opportuniste che, evolutesi per far fronte a questo genere di situazione, si precipiteranno a riempire gli spazi rimasti vuoti e daranno il via alla successione che riporterà l'ambiente in uno stato molto simile a quello originario. Questo è l'impianto vitale che ha richiesto un miliardo di anni per arrivare ad essere quello che è. Un meccanismo che ha fagocitato, avviluppandola nei propri geni, la furia dei temporali e che ha creato il mondo in cui noi, a nostra volta, siamo creature."

domenica 13 febbraio 2011

Darwin, il padre dell'Evoluzione


Chiedo scusa ai lettori del blog per il ritardo con cui pubblico questo post (dovevo pubblicarlo ieri ma mi è mancato il tempo!!). Vorrei ricordare quindi con voi una data: il 12 Febbraio 1809. Quel giorno nacque a Shrewsbury, nello Shropshire in Inghilterra, Charles Robert Darwin: il "padre" di noi naturalisti. Studiò zoologia e botanica, e viene ricordato per il viaggio svolto con il "Beagle" in cui visitò le isole di Capo Verde, le isole Falkland, la costa del Sud America, le isole Galàpagos e l'Australia. Di ritorno da questo itinerario nel 1836, egli analizzò campioni di specie animali e vegetali che aveva raccolto, e notò somiglianze tra fossili e specie viventi nella stessa area geografica. La sua attenzione fu rivolta in modo particolare all'arcipelago delle Galapagos dove trovò diverse forme di tartarughe e specie differenti per l'aspetto di uccelli, ma che per altri versi erano simili. Le ulteriori analisi e studi che ne seguirono lo portarono a formulare quella teoria per cui oggi è importante: la teoria dell'evoluzione (esplicitata nel suo famoso libro "L'origine delle specie"). Quegli uccelli appartenevano tutti alla famiglia dei Fringillidae, le diverse specie risultavano differenti tra loro perchè adattate a diverse risorse alimentari, stesso discorso per le tartarughe per cui ipotizzò un'origine da un'unica specie e si fossero poi diversificate adattandosi nelle diverse isole. Una selezione naturale che agisce sulle specie, consentendo la sopravvivenza solo a quelle che presentano i caratteri più vantaggiosi per quell'ambiente. Con le conoscenze attuali, sappiamo meglio definire questo "motore" dell'evoluzione, poichè ogni individuo di una stessa specie si differenzia l'uno dall'altro per caratteristiche genetiche (a livello del pool genico) e fenotipiche (morfologiche/funzionali dovute all'interazione del genotipo con l'ambiente). La selezione naturale quindi prevede che all'interno di tale variabilità, legata alle mutazioni genetiche casuali che si verificano nel corso delle generazioni successive, vengano favorite quelle mutazioni che portano gli individui ad avere quelle caratteristiche che li avvantaggiano in determinate condizioni ambientali, portandole così ad avere un vantaggio adattativo in termini di sopravvivenza e di riproduzione (fitness). Di conseguenza, genotipi con fitness elevata aumenteranno di frequenza nelle generazioni successive e diverranno i più rappresentati, mentre quelli con fitness bassa, diventeranno sempre meno frequenti, fino alla scomparsa. Non mi dilungo oltre e vi lascio con una frase di Darwin che credo possa rappresentare al meglio il suo pensiero e la sua intuizione: "Non è la specie più forte a sopravvivere, nè la più intelligente, ma quella più pronta al cambiamento".

mercoledì 26 gennaio 2011

Biodiversità, la linfa vitale della Terra


Oggi vorrei iniziare il post con alcune date: 440 milioni di anni fà: estinzione del 25% delle forme di vita presenti nei mari a quell'epoca; 370 milioni di anni fà (nel Devoniano) grave crisi dei non vertebrati e dei pesci primitivi; 250 milioni di anni fà (fine Permiano) abbiamo l'estinzione di massa più catastrofica con la scomparsa del 50% delle famiglie animali tra cui tutte le trilobiti; 210 milioni di anni fà (nel Triassico) scomparvero molti rettili e invertebrati e circa 65 milioni di anni fà (fine Cretaceo) è avvenuta la quinta estinzione di massa, caratterizzata dalla scomparsa dei dinosauri. Queste che ho citato sono le grandi estinzioni di massa che sono avvenute nel passato della storia del nostro pianeta e su di esse bisogna ricordare alcune cose, per esempio il fatto che hanno tutte avuto una causa naturale (grandi fenomeni geologici o cambiamenti climatici importanti) e che questi processi si sono sviluppati nell'arco di migliaia e persino milioni di anni. Perchè ho voluto ricordare tutto questo? Per il semplice fatto che noi attualmente stiamo vivendo la sesta estinzione di massa, la quale è dovuta all'espansione della nicchia ecologica della specie umana che di fatto comprime quella delle altre specie viventi (minacciandole così di scomparire). Inoltre questa si stà consumando velocemente, a differenza delle precedenti, lasciando un vuoto che difficilmente potrà essere colmato anche in milioni di anni. Si ritiene quindi, che il tasso di estinzione attuale delle specie non sia naturale, ma sia di almeno mille volte superiore a causa del pesante intervento della specie umana (Primack, 2001). Quali sono quindi le principali minacce per la biodiversità? Queste sono ben illustrate dalla IUCN e possono essere riassunte in quanto segue: degrado/perdita di habitat, che colpisce l'86% di tutti gli uccelli in pericolo, l'86% dei mammiferi valutati minacciati e l'88% degli anfibi a rischio estinzione; l'introduzione di specie esotiche (alloctone) invasive; l'eccessivo sfruttamento delle risorse naturali; inquinamento e malattie; cambiamenti climatici indotti dall'uomo, che stà alterando i modelli migratori delle specie ed è responsabile dello sbiancamento dei coralli (ricordo che il 70% delle barriere coralline sono minacciate o distrutte). L'Italia sappiamo essere la nazione più ricca di specie in Europa, grazie alla varietà di ambienti e climi che ospita, pertanto credo debba avere e assumersi grandi responsabilità nella conservazione della natura. Guardando però i dati anche in questo caso della World Conservation Union e del suo ultimo rapporto sul nostro paese i numeri che riguardano le nostre specie minacciate sono allarmanti! Ben 236 sono classificate nelle categorie delle specie a rischio. Di queste 4 sono vegetali e 232 animali. Tra le specie a maggior rischio in Italia e che quindi necessitano di maggior cura e attenzione vale la pena ricordare: l'Orso Bruno (Ursus arctos) con le due sottospecie alpina e appenninica, la lontra (Lutra lutra) , il lupo (Canis lupus)  stimato in circa 500 esemplari lungo la catena appenninica, il grifone (Gyps fulvus) , il gambero di fiume (Austropotamobius pallipes) e specie vegetali come l'abete di Nebrodi (Abies nebrodensis). Verrebbe quindi da chiedersi, ma perchè è importante tutelare la biodiversità? Al di là di un discorso puramente biologico/naturalistico, è giusto e importante ricordare come ogni organismo vivente svolge un ruolo fondamentale per la "salute" del nostro Pianeta. La natura ci fornisce gratuitamente dei servizi e possiamo allora pensare ad alcune piante e batteri che ci aiutano a tenere pulito l'ambiente attraverso la loro capacità di degradare i nostri rifiuti e riciclarne i nutrienti. I grandi predatori (come leoni, tigri, lupi, orsi, ecc..) contribuiscono in modo determinante a mantenere bilanciata la catena alimentare e sane le popolazioni predate. I lombrichi invece sono importantissimi per il terreno, grazie alla loro attività favoriscono la decomposizione della sostanza organica e scavano gallerie in grado di consentire all'aria e all'acqua di scendere in profondità. Pensiamo agli insetti impollinatori come le api,che consentono alle piante di fiorire, riprodursi e generare frutti; oppure guardiamo il processo di autodepurazione fluviale reso possibile dalla vegetazione presente lungo le rive (funzione di filtro e assorbimento degli inquinanti) e da macroinvertebrati, pesci e batteri che vivono nel corso idrico. Questa sesta estinzione di massa a cui stiamo andando incontro è determinata dall'uomo e dalle sue attività, per questo siamo noi che dobbiamo prenderci la responsabilità di tutelare e conservare le specie minacciate, attraverso programmi e investimenti finalizzati a ridurre il degrado degli habitat e tutti i fattori citati prima che provocano questa riduzione di biodiversità, cercando anche di sensibilizzare il più possibile le persone su questo tema.

giovedì 20 gennaio 2011

Green Economy


Nel post precedente ho parlato del progetto FORESTE 2011 e della conseguente necessità a livello globale di tutelare e promuovere il prezioso patrimonio vegetale mondiale attraverso una gestione sostenibile di tale risorsa. Bene, in una visione d'insieme più ampia che coinvolge tutte le risorse (non solo quelle forestali) intorno alla fine degli anni'80 venne teorizzato il concetto di sviluppo sostenibile, cioè cercare di rendere le produzioni più compatibili con l'ambiente circostante. Ora, negli ultimi anni stà prendendo piede la cosiddetta Green Economy che secondo me rappresenta il superamento del semplice sviluppo sostenibile. Questa possiamo definirla come quella forma di economia in cui la crescita del reddito e dell'occupazione è guidata da investimenti pubblici e privati che riducono le emissioni di carbonio e l'inquinamento, che migliora l'efficienza energetica e lo sfruttamento delle risorse e che consente di evitare la perdita di biodiversità e dei servizi ecosistemici. Ma è possibile portare avanti uno sviluppo di questo tipo? Io credo proprio di sì, è una questione di sensibilizzare chi governa su questi temi. Voglio citare a sostegno di tutto ciò un paio di esempi riportati dall'UNEP (United Nations Environment Programme) che mostrano come una giusta integrazione uomo-ambiente sia possibile e non sia una semplice utopia come invece troppo spesso siamo abituati a sentirci dire. La prima storia viene dalla Cina dove il governo cinese si è impegnato a produrre il 16% della sua energia da fonti rinnovabili (obiettivo non da poco per un paese che solo di recente ha deciso di investire in questo settore!), e nello specifico nel campo dell'energia eolica ha manifestato l'intenzione di aumentare il suo precedente obiettivo di 30 GW di capacità installata entro il 2020 a 100 GW, mentre nel solare è attualmente il più grande produttore al mondo, producendo il 45% del solare fotovoltaico globale del 2009. Questa svolta energetica della Cina ha creato anche molti posti di lavoro: 600.000 nel solare termico, 55.000 nel solare fotovoltaico e 22.200 nell'eolico per citarne alcuni. Un'altra storia che vale la pena ricordare è quella della Pianificazione Urbana Sostenibile realizzata in Brasile, nello specifico in una città: Curitiba. Questa è la capitale dello stato del Paranà ed è stata in grado di crescere da 361.000 abitanti (nel 1960) a 1.828.000 senza subire gli inconvenienti tipici della congestione, dell'inquinamento e dello spazio pubblico. Ciò è stato possibile attraverso varie azioni, come per esempio la riduzione delle emissioni di CO2 mediante strategie mirate e coordinate nei trasporti e nelle costruzioni. Curitiba ha il più alto tasso di utilizzo dei trasporti pubblici in Brasile (45% dei viaggi) e uno dei tassi più bassi del Brasile di inquinamento atmosferico urbano. Il controllo delle inondazioni a cui è soggetta la città è stato affrontato attraverso la creazione di laghi artificiali per contenere le acque alluvionali, tale soluzione ha avuto costi che è stato stimato essere 5 volte inferiore rispetto alla costruzione di canali in cemento.Un'altra azione importante è stata poi la creazione del CIC (Curitiba Industrial City) sul lato Ovest della città tenendo in considerazione la direzione del vento per evitare di inquinare il centro della città. Questo polo industriale inoltre ha norme ambientali molto severe alle quale le industrie al suo interno devono sottostare (attualmente ospita più di 700 aziende e ha già creato più di 50000 posti di lavoro diretti e 150000 indiretti!). Ci sarebbero altri esempi, altre storie, anche solo di semplici aziende che hanno deciso di puntare in un contesto come questo della Green Economy (penso per esempio al gruppo Marcegaglia, il quale investe nella ricerca di pannelli fotovoltaici che non usano il prezioso silicio), ma sui quali non voglio dilungarmi oltre. La mia speranza è che questo sia il futuro, il non ritenere quindi che la ricerca di un giusto equilibrio tra uomo e ambiente debba essere visto solo come un limite, ma piuttosto  come una nuova e più sana forma di sviluppo dove il "Green" possa finalmente essere considerato un valore su cui puntare.

lunedì 10 gennaio 2011

Foreste 2011


Siamo entrati nel 2011 e vorrei quindi dedicare il primo post dell'anno a quello che è stato dichiarato dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite "Anno Internazionale delle Foreste" per la gestione, conservazione e sviluppo sostenibile dell'ecosistema forestale. A riguardo ho trovato molto interessanti oltre che pienamente condivisibile l'opinione di Julia Marton-Lefèvre, direttore generale della IUCN (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura), la quale afferma:"L'aria che respiriamo, il cibo, l'acqua e le medicine di cui abbiamo bisogno per sopravvivere, la varietà della vita sulla Terra, il clima che modella il nostro presente e futuro, tutti dipendono dalle foreste. Il 2011 deve essere l'anno in cui il mondo riconosce l'importanza fondamentale dei boschi per la vita sulla Terra, per tutte le persone e per la biodiversità". Ma qual è lo stato attuale delle nostre foreste? Ecco, un recente rapporto della FAO mostra come negli anni '90 sparivano circa 16 milioni di ettari ogni anno, mentre dal 2000 ad oggi questo dato è sceso a 13 milioni. E' chiaro che nonostante il leggero miglioramento la situazione rimane preoccupante, sopratutto se pensiamo che dall'inizio del ventesimo secolo ad oggi è stato perduto oltre il 50% dell'estensione originale delle foreste pluviali. Danneggiare, distruggere le foreste vuol dire fare del male anche a noi stessi, in quanto sappiamo bene che con la fotosintesi le piante verdi immagazzinano l'anidride carbonica (principale gas serra) per produrre molecole organiche e come sottoprodotto rilasciano nell'atmosfera ossigeno (fondamentale per noi). Spesso poi ci dimentichiamo come non esistiamo solo noi, ma vi sono tantissime altre specie che come noi abitano la Terra e per molte di loro le foreste costituiscono l'habitat, l'ambiente cioè in cui vengono forniti degli elementi chiave per la sopravvivenza di una specie: acqua, nutrimento e riparo. Questo risulta ancora più evidente se guardiamo le statistiche che accompagnano gli studi svolti sulle foreste pluviali, i quali mostrano come nonostante ricoprano solo il 6% della superficie terrestre, esse ospitano circa il 50% della flora e della fauna del pianeta. Cosa succede se eliminiamo le foreste? Il livello freatico si abbassa, i territori che prima erano protetti dai boschi diventano più soggetti alla siccità, le frane e inondazioni distruggono strade, case e colture. La deforestazione poi accelera il processo del cambiamento climatico, in quanto viene ridotto il processo di assorbimento dell'anidride carbonica che avviene con la fotosintesi: è stato calcolato che a livello globale, nel periodo 2000-2010 lo stock di carbonio contenuto nella biomassa delle foreste si sia ridotto di 500 milioni di tonnellate. A questo grande impegno di gestione e sviluppo sostenibile delle foreste sono chiamati i governi, ma anche noi nel nostro quotidiano possiamo fare qualcosa. La quantità di carta che consumiamo ogni giorno è tantissima e supera di gran lunga le nostre effettive esigenze, perciò una pratica importante è quella del riciclo, abituandoci per esempio a riutilizzare i fogli stampati solo da un lato. Dall'altra parte possiamo acquistare tantissimi prodotti fatti con carta riciclata; dai quaderni e libri fino ai tovaglioli e fazzoletti. Anche nella scelta dell'arredamento si possono utilizzare dei criteri ecologici, per esempio acquistando prodotti realizzati con materiale di riciclo, per la cui realizzazione non è stato abbattuto neanche un albero. I mobili ecologici sono fatti di legno riciclato al 100% secondo un procedimento di qualità certificata. Ricordiamoci che a distruggere un albero ci bastano pochi secondi, mentre ne servono decine di anni per farlo crescere.